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La retribuzione di risultato dei dirigenti

La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 2462/2018, ha fornito indicazioni sulla Retribuzione di Risultato per i Dirigenti Pubblici.

La Cassazione, in particolare, ricorda come, in materia di struttura del trattamento retributivo dei dirigenti:

    la qualifica dirigenziale costituisce la ragion d’essere del trattamento economico fondamentale,

    la retribuzione di posizione riflette «il livello di responsabilità attribuito con l’incarico di funzione»,

    e la retribuzione di risultato corrisponde all’apporto del dirigente in termini di produttività o redditività della sua prestazione.

Il trattamento accessorio collegato ai risultati, secondo le nuove regole, vale almeno il 30% della retribuzione. La retribuzione complessiva salirà così del 3,48% per tutti i 156 mila dirigenti pubblici, prevede inoltre l’atto di indirizzo. La percentuale è in linea con quanto stabilito in manovra. Ovviamente si darà più peso alla retribuzione di risultato, quella legata al raggiungimento di target.

Quali regole?

Per la Cassazione è semplice. La retribuzione di risultato, lungi dal costituire una voce automatica resta subordinata, per ciascun dirigente, ad una determinazione annuale. Questa determinazione va effettuata solo a seguito della definizione, parimenti annuale, degli obiettivi e delle valutazioni degli organi di controllo interno, di cui al precedente contratto collettivo del 1996.

Si ricorda che in merito al raggiungimento dei target, sono state emanate le nuove linee guida per la valutazione dei dipendenti della P.A. Tra le novità, oltre al voto degli utenti, la responsabilità di gruppo, l’autovalutazione e il coinvolgimento delle figure intermedie.

Le linee guida forniscono indicazioni in ordine alla progettazione e alla revisione annuale del Sistema di Misurazione e Valutazione della Performance (nel seguito SMVP) che ogni amministrazione adotta ai sensi dell’art. 7 del d.lgs. 150/2009. da lentepubblica.it

 

La residenza fiscale del cittadino

I Comuni hanno un ruolo nella determinazione della residenza fiscale del cittadino? La questione è complessa e merita un adeguato approfondimento. Occorre ricordare in primis che l’articolo 2, comma 2,  del Tuir stabisce che: “Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta siano iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o abbiano nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile”. Pertanto – come segnala Marco Bargagli in un articolo pubblicato da Euroconference News – la persona fisica che, per la maggior parte del periodo d’imposta (convenzionalmente 183 giorni), è stata iscritta all’anagrafe dei cittadini residenti (requisito formale), ossia abbia stabilito il proprio domicilio o la propria residenza sul territorio nazionale (requisiti sostanziali alternativi), sarà considerata residente in Italia, dove sarà tenuta a pagare le tasse per i redditi ovunque prodotti nel mondo, in base al c.d. worldwide principle. Il problema sorge quando il cittadino italiano decida di emigrare all’estero, in un altro Paese, nel quale dovrà necessariamente eleggere la propria residenza fiscale dopo aver effettuato la propria cancellazione dall’anagrafe della popolazione residente del suo Comune di precedente residenza, iscrivendosi successivamente all’AIRE. Operazione che, tuttavia, non garantisce automaticamente l’esclusione del domicilio e/o della residenza dallo Stato, come spiega la circolare n. 304/E del 02.12.1997 (Ministero delle Finanze, Direzione centrale accertamento e programmazione). E, di conseguenza, la sottrazione al dovere di pagare le imposte in Italia. E’ a questo punto che entra in gioco il ruolo del Comune, come prevede l’articolo 83 D.L. 112/2008, convertito con modificazioni nella L. 133/2008 (ruolo degli enti locali nella lotta all’evasione fiscale internazionale), il quale sancisce l’obbligo di confermare all’Agenzia delle Entrate, entro 6 mesi dalla richiesta di iscrizione nell’anagrafe degli italiani residenti all’estero, che il soggetto richiedente abbia effettivamente cessato la residenza nel territorio nazionale. Verifica che, sempre secondo l’art. 83, comma 17-bis, avverrà sulla base di controlli selettivi relativi a eventuali attività finanziarie e investimenti patrimoniali esteri non dichiarati in capo allo stesso soggetto richiedente. da www.ancitel.it

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